La co-progettazione è la punta più avanzata di politiche pubbliche “guidate dallo scopo”.
Da quanto la co-progettazione da “processo” ha preso le sembianze di un “istituto giuridico” (art 55 del Codice del Terzo Settore) riconosciuto dalla Costituzione e da una sentenza della Corte Costituzionale (131/2020), stiamo assistendo ad un crescendo di eventi, riflessioni, pubblicazioni e occasioni formative orientati ad aumentare la consapevolezza del valore trasformativo di questa innovazione.
Una spinta legittima che si fonda sulla consapevolezza che la qualità della relazione fra Pubblica Amministrazione e le organizzazioni della società civile non è neutra e non è sufficiente attivarla per renderla generativa e utile per la comunità. La co-progettazione, infatti, non può limitarsi a semplice esercizio di “innovazione amministrativa” ma deve tendere a promuovere un “convergenza” reale intorno ad obiettivi d’interesse generale.
Per non cadere nella trappola della “mitizzazione” è necessario collocare questo prezioso istituto giuridico nell’alveo della “ragion pratica” e non appena nella “ragion tecnica”. Ciò a significare che la co-progettazione pur servendosi di argomenti giuridici mai deve dimenticare che il suo tèlos è quello di suggerire o proporre linee di policy migliorative della condizione umana e delle comunità. Un bivio rilevante che può farci rimbalzare verso una nuova stagione di politiche oppure riportarci al punto di partenza.
La riforma del Terzo Settore riconoscendo “il valore pubblico” (e non solo la funzione) degli ETS ha ripristinato la primazia dei processi di co-creazione rispetto a quelli di “gestione ed esternalizzazione” delle Istituzioni orientate all’interesse generale. Un riconoscimento che deve potersi tradurre in relazioni e processi coerenti.
Assumendo come premessa questa visione la coprogettazione diventa perciò per la Pubblica Amministrazione la strada privilegiata per co-creare, attraverso un metodo collaborativo e contributivo, soluzione comunitarie orientate ad un interesse generale.
Non è infatti “lo scambio” fra due istituzioni (PA ed ETS) il cuore della collaborazione ma “il beneficio” da apportare alla comunità. Un passaggio non di poco conto. La co-progettazione sposta il “fuoco” dal governo alla governance e pone l’accento non sulla procedura pubblica ma sulla qualità dei processi deliberativi (di cui spesso poco si parla e sui quali poche risorse vengono destinate). Una visione della politiche che non si legittima sull’esercizio del potere e sulla gerarchia ma nel dialogo e nella conversazione “fra pari”. Una visione Arendtiana secondo cui la partecipazione al Governo ha senso nella misura in cui si lascia aperta la porta “ad agorà” e ad occasioni di conversazione: “una pluralità di attori, allo stesso tempo uguali e distanti, la politica nasce nell’infra, e si afferma come relazione”. Diversamente la coprogettazione rischia di essere la mera aggregazione di servizi in funzione di un “welfare a la carta” di cui i cittadini non hanno bisogno.
Passare da politiche autenticamente collaborative al “tockenismo” (concessionisimboliche ad un gruppo di rilevanza minoritaria) è un rischio reale, se non si pone alla base del processo la tensione alla co-produzione di soluzioni personalizzate (non standard) di comunità. L’essenza della co-progettazione è infatti la valorizzazione degli apporti e non l’estrazione o la mera aggregazione degli stessi come dimostrano le prime sperimentazioni virtuose sulla rigenerazione degli spazi pubblici (es. Case di Quartiere di Reggio Emilia). Progettualità che confermano come sia l’innovazione sociale la sostanza intorno a cui l’istituto giuridico trova la sua più alta applicazione e non il contrario.
La co-progettazione in tal senso diventa ben più che l’applicazione di norme e di procedure ma una vera e propria riforma istituzionale che ridefinisce gli equilibri e le interdipendenza tra “la piazza e la torre” che come ricordava lo storico Niall Ferguson rappresentano l’architrave della nostra vita in comune. Ben prima dello Stato e anche ben prima delle forme moderne di organizzazione della società civile.
Dopo una stagione in cui le piazze della socialità generativa si sono svuotate e le torri dei poteri pubblici (locali soprattutto) sono state mozzate nelle competenze e nelle risorse emerge la necessità di un nuovo percorso istituente chiamato a dare durevolezza ai processi di trasformazione sociale emersi in questi anni. Un processo rispetto al quale il terzo settore parte in posizione avvantaggiata forte della sua reputazione sociale e non da ultimo della sua nuova forma giuridico organizzativa. Un processo che trova come banco di prova le risorse del PNRR. Un’occasione unica per dimostrare che la co-progettazione non è uno strumento residuale ma la punta più avanzata di politiche pubbliche “guidate dallo scopo”.
Articolo originale di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai